Lâ Büsèlâ, dolce e fragile

21 Dicembre 2024

Sembrava che il benessere avesse mandato in soffitta, nei meandri della memoria, il dolce natalizio dei bambini, con tutto il suo carico di significati economici, di tenerezza, antropologici. E invece, negli ultimi decenni, la tenera bambolina è ricomparsa, non solo nelle famiglie dove resiste qualche nonna nostalgica, ma anche nelle panetterie, nelle pasticcerie e in qualche ristorante che la elenca nei dessert.

Confezionata con pasta di pane, in tempi che si perdono lontani, era il dono della nonna ai nipotini, infornata nel forno ancora caldo dopo la cottura del pane, era caricata, oltre che dell’affetto e del valore benaugurante, di tutta una serie di simbolismi che si esprimevano nel modo di mangiarla.
Rotta con le mani, mai spezzata con un coltello, era consumata alla fine del pranzo di S. Stefano seguendo una precisa suddivisione, fatta dal capofamiglia, un autentico rito propiziatorio. La testa era data alla più piccola perché crescesse in pazienza e bontà; le braccia erano per la mamma perché potesse accudire alla casa senza troppa fatica; le gambe andavano al padre cosicché lo conducessero ben saldo al luogo di lavoro. E il busto? «Ar büst pâr i amìis».

C’è chi racconta che, neppure in tempi di guerra, nonostante la penuria di beni, le località oltrepadane rinunciassero alla preparazione del tradizionale dolce. Gli ingredienti erano messi da parte con privazioni quotidiane. La Vigilia di Natale si impastava il tutto in dosi molto ridotte, quindi si cuoceva la bambolina o il bambolotto nel forno di una stufa a legna. C’era in quei tempi uno strano senso delle proporzioni: il pupazzo di pasta aveva una testa enorme, gambe normali, braccia molto sottili: era davvero il frutto d’amore di mamma o di nonna.

Sotto il punto di vista storico, questa bambolina di pasta e il suo corrispettivo maschile bragton (quest’ultimo più tipico del Tortonese) rimandano all’uso di pani devozionali antropomorfi anche presso popoli extraeuropei, come Aztechi e Messicani e presso moltissime culture contadine europee in quasi tutte le epoche. Un’attitudine umana tra le più antiche, che ha mescolato, riproponendoli fino ai giorni nostri, il sacro e il profano, il prodigio della natura e l’immaginazione.

E il nome? Non è esso stesso il risultato di derivazioni lessicali e letterarie? Scritto dal Maragliano büsséla, da altri busela o bussèla, si dice abbia origine dall’influenza della lingua francese sul dialetto oltrepadano ed è fatto derivare dal termine pulcelle, ragazzina.

E se in passato era confezionata con l’avanzo dell’impasto del pane, è stato sostituito nel tempo dalla pasta frolla aggiunta, oltre che dell’ uva sultanina, anche di canditi e cioccolato. La forma originale non è cambiata del tutto, solo ha acquistato leziosità. Il viso ha per occhi due canditi, un pezzetto di cioccolato dà forma al naso. Ogni massaia, ogni panettiere, ogni pasticciere apporta, però, variazioni molto personali.

Mirella Vilardi