Le cantine di Cegni

4 Febbraio 2025

Oggetto di una tesi di laurea, a cura di Nicola Parisi, presentata alla facoltà di Agraria dell’Università di Piacenza, le cantine di Cegni rappresentano una realtà singolare nel vasto panorama delle costruzioni rurali.

Sono trentasei, disseminate su un pendio nella sponda sinistra del torrente Staffora, sotto l’abitato di Cegni, a circa settecento metri di altitudine e circondate, tutte, da un vigneto, più o meno piccolo, col trascorrere degli anni, sempre più piccolo. In alcuni casi si tratta solo di qualche filare simbolico, rimasto per amore dei proprietari, ma sufficiente a raccontare una realtà tenera e straordinaria, degna di essere vista.

Vinificata artigianalmente insieme a qualche grappolo di Barbera o Dolcetto (coltivate non certo in condizioni ottimali a queste altitudini), l’uva Croà dava origine a un vino che non è ricordato, evidentemente, per la sua bontà.

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Siamo, ovviamente, al limite massimo di altitudine per la coltivazione della vite e il vitigno qui coltivato era l’autoctono Croà, tipico dell’Oltrepò Pavese che manteneva, soprattutto in alta valle, le caratteristiche produzioni abbondanti e la maturazione tardiva.

Eppure, le piccole costruzioni in pietra, con funzione di cantina, inserite nel loro habitat affascinante di filari e prati e campi, hanno la dignità storica del racconto, testimoniano la civiltà contadina e la vita dei borghi autosufficienti,

La loro nascita è datata tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 ed è dovuta ad almeno tre motivi. Primo fra tutti la funzione di ricovero per gli attrezzi da lavoro e di riparo per il viticoltore. Il secondo motivo è da rintracciare nelle strade di campagna di pendenza ragguardevole che separavano le vigne dall’abitato e all’inevitabile difficoltà del trasporto delle uve in paese. Ultima ma non meno importante motivazione, la dimensione ridotta delle abitazioni rurali in questi luoghi: piccole e povere case, riuscivano ad ospitare a mala pena le vacche nella stalla al pianterreno e la famiglia del contadino, spesso numerosa, stipata al piano superiore.

Non avevano altri spazi dove poter effettuare le operazioni di vinificazione e dove poter conservare il vino imbottigliato.

A questo punto sono necessarie due precisazioni. La prima si riferisce all’assenza dell’imbottigliamento. Il vignaiolo non imbottigliava affatto, era solito spillare il vino all’occasione e portarlo in casa nella quantità sufficiente al consumo giornaliero. Altra precisazione davvero curiosa è che, da queste parti, a occuparsi delle vigne, in estate, erano le donne. Gli uomini vi ritornavano solo dopo le campagne “dei risi” che li portavano in Lomellina o nel vercellese per la mietitura.

Col tempo, queste cantine, le più antiche delle quali appartenevano alle famiglie più benestanti, divennero un vero e proprio status-symbol, tanto da spingere le famiglie a grandi sacrifici pur di riuscire a costruirne una e riscattare, così, la propria condizione sociale. Emblematico il ricordo degli anziani che raccontano di come, alcuni compaesani, emigrati in America a fine Ottocento, non dimentichi degli usi e dei costumi di Cegni, inviavano a casa il denaro, duramente guadagnato, affinché si provvedesse alla costruzione di una cantina che fosse pronta al proprio ritorno, come il migliore dei riscatti possibili.

Sono modeste costruzioni molto simili tra loro, a pianta quadrata, su due piani, e orientamento Est-Ovest. Il piano seminterrato, il cui ingresso è a Est, era destinato alla vinificazione in rosso delle uve, ovvero alla fermentazione, alla lunga macerazione e alla conservazione del vino in botti di rovere. Il piano del pavimento è sempre al di sotto del livello del terreno di circa quaranta-cinquanta centimetri, al quale si accede per mezzo di due scalini in sasso.

Al primo piano si entra tramite una scala esterna di pietra ad una sola rampa, piuttosto ripida, se l’ingresso è laterale, oppure, attraverso un breve sentiero in terra battuta se l’ingresso è posteriore. In questo locale, l’uva appena raccolta era stesa sul pavimento, a più strati, e vi rimaneva anche per una settimana, al fine di ottenere un leggero appassimento con conseguente aumento del tasso zuccherino.

Qui avveniva la pigiatura, tradizionalmente fatta nella “bigoncia” e, successivamente, il mosto era fatto confluire nelle botti di fermentazione, al piano inferiore, attraverso aperture nel pavimento, con l’ausilio di imbuti in legno.

La copertura del tetto originaria era in lastre di pietra, sostituite, per ovvia difficoltà di reperibilità, da coppi e tegole man mano che si presentano problemi di stabilità.

Attualmente quasi tutte le cantine vertono in buono stato di conservazione, sono state effettuate ristrutturazioni ed è in atto un’opera di conservazione meritoria da parte dei proprietari, benché, l’uso, prettamente legato al vino, sia perpetuato più per mantenere viva la tradizione che per vera utilità.

La gente di Cegni, pur con le inevitabili difficoltà della vita in un piccolo borgo montano, ha capito e cerca di conservare il valore storico-testimoniale di queste costruzioni mignon, tipiche architetture rurali specializzate, assimilabili alle baite per l’allevamento del bestiame, ai caseifici per la trasformazione del latte e ai mulini per la macina di granaglie.

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